Conferenza mondiale su Xenofobia, razzismo e nazionalismo populista nel contesto delle migrazioni mondiali

Discorso di apertura di S. Em. il Cardinale Peter K.A. Turkson

 

Eccellenze,

Onorevoli rappresentanti delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa,

Cari fratelli e sorelle,

 

Ho il piacere di darvi il benvenuto alla Conferenza mondiale sul tema Xenofobia, razzismo e nazionalismo populista nel contesto delle migrazioni mondiali, organizzato dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale della Santa Sede e dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, con la collaborazione del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani.

Il tema del nostro incontro è particolarmente rilevante nei nostri tempi. Ogni giorno siamo testimoni, direttamente o attraverso le notizie che ci giungono dai mezzi di comunicazione sociale, di storie di uomini e donne, bambini e bambine che mettono a rischio le loro vite e quelle dei loro cari, alla ricerca di una vita migliore. Le vite di queste persone, le loro ferite e le loro speranze, interpellano le nostre coscienze e ci inducono a riflettere sullo sguardo che le società di accoglienza rivolgono sui nuovi arrivati. Infatti, l’argomento sul quale ci accingiamo a riflettere non riguarda tanto il fenomeno migratorio contemporaneo in quanto tale, le cause che ne sono alla radice o le diverse maniere in cui questa realtà viene vissuta e gestita, ma piuttosto il modo con cui le diverse società che entrano in contatto con le persone migranti si relazionano a questi ultimi.

Quante volte abbiamo sentito nei media l’espressione “villaggio globale” per definire le nostre società. L’idea del villaggio rinvia a quella delle relazioni, della vicinanza e della solidarietà reciproca, idea che tuttavia viene quotidianamente smentita dalle notizie e dei fatti che riguardano l’accoglienza dei migranti. A questo proposito, tornano alla mente le parole del Papa emerito Benedetto XVI, il quale nell’Enciclica Caritas in Veritate affermava «La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli» (Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in Veritate, n. 19).

Vogliamo interrogarci su come le società di accolgienza si interfacciano con i nuovi arrivati, sullo sguardo che portano sullo straniero, sull’altro, sul diverso da sé per tanti aspetti, e sui sentimenti e i conseguenti comportamenti che emergono nei confronti dello stesso. Si tratta, in definitiva, di esaminare la tenuta morale e giuridica delle società contemporanee – sempre più culturalmente variegate – di fronte ad un fenomeno che è sempre esistito nella storia dell’umanità, quello cioè delle migrazioni.

Questa analisi assume un significato particolare nell’anno in cui ricorre il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, con la quale la comunità internazionale ha solennemente riconosciuto alcuni diritti e libertà fondamentali che scaturiscono dall’eguale dignità di ogni persona umana e che spettano ad ogni individuo «senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione»1.

Vale dunque la pena chiederci quale valore abbia oggi questo principio, che costituisce uno dei pilastri del diritto internazionale dei diritti umani; di chiederci, cioè, se davvero l’umanità in questi 70 anni del suo cammino abbia saputo costruire società nelle quali la razza, il sesso, il colore, la lingua, la religione, l’opinione politica, l’origine nazionale o sociale, la ricchezza o la povertà non siano motivi sufficienti per giustificare l’indifferenza, l’emarginazione, l’odio, l’esclusione o lo scarto di un essere umano.

C’è altresì da domandarci se davvero oggi i diritti fondamentali codificati nella Dichiarazione del 1948 – tra i quali si annovera anche quello di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di farvi ritorno2 – sono riconosciuti, rispettati e promossi nei confronti di ogni essere umano o se invece le numerose conquiste ottenute anche mediante la codificazione dei diritti fondamentali dell’uomo vacillano a seguito del diffondersi di sentimenti, discorsi e atti di ostilità nei confronti di alcuni gruppi di persone, ed in particolare degli stranieri.

C’è, infine, da interrogarci su quanto i sentimenti e gli atti ispirati al sospetto, al timore o addirittura all’odio razziale, etnico, nazionale o religioso siano attuali nelle società contemporanee, nelle quali – già da diverso tempo – si constata un variopinto intreccio di relazioni matrimoniali, familiari, scolastiche, lavorative e altro fra razze, popoli, culture e religioni, che dovrebbe piuttosto essere foriero di una maggiore convivenza, fraternità e solidarietà fra le persone.

È appena il caso di sottolineare che, in quanto cristiani, le esperienze della migrazione e dell’esilio ci rammentano che anche Nostro Signore Gesù Cristo non solo si è riconosciuto nello straniero (cfr. Mt 25, 31-46) ma ha egli stesso conosciuto, da bambino, la fuga dalla terra natia. Sicché l’accoglienza dei migranti, specialmente di chi è in pericolo, è un principio morale che trae fondamento e forza dal Vangelo e dalle Sacre Scritture, e fa parte dell’essere Cristiano, cioè dell’appartenere a Cristo.

Ci duole constatare che, nel contesto delle migrazioni internazionali, troppo spesso la diffidenza e la paura prevalgono sulla fiducia e l’apertura all’altro. Allo stesso tempo, confidiamo nelle tante dimostrazioni di solidarietà e di compassione che pure caratterizzano i nostri tempi, alcune delle quali faranno oggetto di una presentazione durante i nostri lavori. Ascolteremo altresì le voci di accademici e studiosi di varie discipline, nonché di diversi esperti del mondo delle istituzioni internazionali, dei media, delle Chiese e di altre confessioni religiose, i cui esponenti ringrazio sentitamente di aver accettato il nostro invito. Alla luce di questi interventi, rifletteremo sul ruolo che le Chiese sono chiamate a svolgere in questo delicato contesto.

Mi auguro che sapremo uscire da questo incontro con una coscienza rinnovata, con uno sguardo purificato e che da essi possano scaturire nuove sinergie fra i membri delle diverse confessioni cristiane, i fedeli di altre religioni e tutti gli uomini e le donne di buona volontà, affinché la dignità di ogni persona – perché in definitiva è di dignità che stiamo parlando – sia riconosciuta e rispettata in ogni circostanza, specialmente in questi tempi di maggior preoccupazione per quelli che il Cristo chiama i “miei fratelli più piccoli” (cfr. Mt 25, 40.45).

Vi ringrazio della vostra attenzione e auguro a tutti un proficuo lavoro.

 

Roma, 18 settembre 2018

 

 

1 Dichiarazione universale dei diritti umani, art. 2.

2 Dichiarazione universale dei diritti umani, art. 13.

 

18 settembre 2018